A me oggi sembra che il vero discrimine nel lavoro in Italia stia fra chi ha un contratto di lavoro dipendente, pubblico o privato che sia, e chi no. Nel “chi no”, includo tutti gli atipici di questo Paese atipico, incastrati in sigle ridicole quali sono tutte le declinazioni del Co.Co., includo la (S)Partita IVA people, gli stage e le prestazioni occasionali.

A me oggi sembra che siamo due popoli che occupano lo stesso suolo: parliamo linguaggi diversi, viviamo vite diverse, abbiamo orizzonti diversi.

A me oggi sembra che difficilmente proveremo a cedere il triste scettro di legno e la corona di latta che spetta a chi vince la gara del più sfruttato, più sottopagato, più deluso.

A me oggi sembra che difficilmente ci capiremo. Mi sembra che per entrambi i gruppi le proprie ragioni sono più ragioni.

Alcuni di noi proprio non riusciremo mai a capire cosa significa vivere a pieno un diritto, se questo è dato da contratto; semplicemente perchè non lo abbiamo mai avuto e quindi non sapremmo come gestirlo.

Altri da noi, però, proprio non riusciranno mai a capire che per diritto e per capriccio sono due motivazioni profondamente diverse, cambiano il senso delle cose, la percezione dello spazio intorno a sè.
Riflettere su questa profonda differenza ci porterebbe a capire che Copernico non ha studiato invano.

La riforma del lavoro ancora non abbiamo capito come sarà, ma ha già dato il la a tutte le forme di confronto verbale immaginabili comprese nell’arco che va dal chiacchiericcio al dibattito, con una tale varietà di posizioni ed interpretazioni che sento il bisogno di un sig. Bignami dei tempi odierni che mi fornisca il compendio.
Spicca, nel mezzo delle eccentricità urlate come saldi di fine stagione (perchè almeno questo, che viviamo in un clima da fine stagione, è tristemente chiaro a tutti), l’affermazione di Nonsochi che sostiene che avere il merito come principio guida di una qualsivoglia riforma sia profondamente sbagliato, perchè parrebbe essere tale merito – sconosciuto ai più nel nostro Paese – niente meno che nemico dell’uguaglianza, che invece risulterebbe essere sorella gemella della giustizia sociale.
In questa occasione non mi esprimo sulla prossima ennesima riforma del lavoro (i vecchi lettori del blog avranno già avuto un sussulto di sorpresa nel vedermi tornare online, figurarsi se posso dare loro un altro colpo cominciando pure ad affrontare seriamente i discorsi!), ma su questa potenziale inimicizia fra merito ed uguaglianza non posso sorvolare, perchè sinceramente non la capisco.
Se uguaglianza è dare a tutti nella stessa misura opportunità, basi, strumenti, speranze – e lunga vita all’uguaglianza! – dove starebbe l’inconciliabilità con il riconoscimento del merito, cioè premiare ciascuno in base al proprio impegno e capacità? (Impegno e capacità insieme, attenzione, perchè l’uno senza l’altro vicendevolmente non sono sufficienti).
Quando in qualche modo il meccanismo della vita si inceppa per questioni legate alla giustizia o alla salute ad esempio, pretendiamo per noi, giustamente, il meglio, cercando il merito e riconoscendogli anche un valore aggiunto a livello economico talvolta spropositato rispetto al valore intrinseco. Ma questo merito, se non lo abbiamo coltivato, accompagnato e cresciuto, come possiamo trovarcelo davanti, disponibile e pronto per le nostre esigenze?
E soprattutto, questo merito magari di famiglia sfortunata, coperto ed offuscato dal brillare vuoto di tanta banalità impreziosita da dinamiche di affiliazione e strane forme di cooptazione, se non avesse avuto che so, una borsa di studio di supporto, strumenti da utilizzare durante la propria formazione, la sicurezza di una stanza nei collegi per gli studenti, questo merito dicevo sarebbe mai arrivato fin davanti a noi, a salvarci la vita, a difendere la nostra dignità, a confortarci con la parola giusta?
Suona come una terzina, che non scivola via nella rotazione della erre ma si ferma perentorio grazie alla ti: merito, come la continua crescita di chi non sfugge a sè stesso, di chi resta e da e – sarebbe pure ora, caro Stato! – riceve.
E a volte, purtroppo, no.
A volte, finite le ferie, i lavoratori italiani ritornano al proprio posto di lavoro.
A volte, però, questo non accade perchè le fabbriche ad agosto hanno chiuso per non riaprire più, spesso ad insaputa degli stessi dipendenti che si ripresentano ai cancelli e trovano solo lucchetti e catenacci.
A volte, finita l’estate, maestre ed insegnanti tornano a scuola e a volte no, perchè tagli e contrazioni li hanno resi “soprannumerari”, ovvero anime vaganti in cerca di una classe cui trasmettere qualcosa.
A volte a settembre stagisti ben retribuiti da aziende virtuose tornano in sede ad imparare nuove competenze e a volte no, perchè le vacanze loro non le hanno fatte, visto che il finto stage serviva solo a farli lavorare per coprire le ferie degli altri e adesso vengono elegantemente rispediti a casa.
A volte, fra chi cerca disperatamente un lavoro, fra chi l’ha perso, chi ne è insoddisfatto, chi lo vorrebbe cambiare, trovi anche lavoratori felici, che forse non hanno tanto, ma quanto meno apprezzano la propria condizione, sempre più eccezionale in un paese con il 39% di giovani disoccupati.
A volte si riesce ad essere solidali e rispettosi, si mette da parte l’individualismo e non ci si lamenta della “sfortuna di dover tornare a lavoro”, ma anzi si cerca di lanciare messaggi di incoraggiamento e sostegno, attraverso i social network e con azioni concrete, verso chi in settembre come unico lavoro ha quello di cercare un lavoro.
Poi entro su facebook e passo su twitter e tristemente vedo che a volte, purtroppo, no, proprio non si riesce.

Summary: Sometimes, finished the holiday season, the Italian workers return to their workplace and somethimes, unfortunately, no.
Sometimes we try to be in solidarity with those who have lost their jobs or cannot find it and we show respect to their plight. Then, however, on social networks you can find many people who complain about having to go back to work: this we are becoming, people individualistic and self-centered.

Oggi continuo a domandarmi come si determina il valore del nostro lavoro.
Lasciando da parte l’aspetto economico – che in generale ha un ruolo importante, per cui ne riparleremo in un post dedicato – mi domando quanto peso abbia ciascun elemento nella determinazione e definizione del valore del lavoro.
La mia domanda non riguarda neanche una comparazione fra diversi lavori da inserire in una scala dimensionale che dimostri come uno vale più dell’altro (anche perchè da socia di una Banca del Tempo, ho trovato la chiave – tutta solidale – che equipara le ore lavorate da una cuoca con quelle di un avvocato!). No, mi domando proprio all’interno dello stesso lavoro, quali sono gli elementi di osservazione che portano a dare valore diverso ad attività apparentemente uguali.
Dipende dal tipo di lavoro, certamente: in alcuni casi è la velocità di esecuzione, in altri la raffinatezza dei dettagli, la preziosità della merce.
Qualunque sia il valore del vostro lavoro, o meglio, del vostro intervento nell’attività che svolgete, affrettatevi a cercarlo ed identificarlo. Affrettatevi a capire qual è l’elemento (o gli elementi, ma massimo due o tre) che vi rende unici, che fa sì che la vostra mano sia riconoscibile, che il vostro intervento si faccia notare, che il vostro passaggio lasci il segno. Può essere un fattore determinante o secondario, poco importa, importa trovarlo. Basti pensare a quei dentisti la cui capacità d’intervento è di pari livello a tanti colleghi; ma poi trovi quello che mentre lavora ti spiega passo passo quello che fa, ti rasserena e rassicura e per voi, pur non avendo aggiunto nulla dal punto di vista tecnico, diventa immediatamente il dentista migliore sulla faccia della terra. Ecco, trovate il vostro “quid” in fretta, individuatelo e… E – sorpresa! – valorizzatelo.
Riconoscere il giusto valore al vostro valore, è l’aiuto migliore che potrete darvi. Lungo la carriera si incontrano così tante persone pronte a sminuire il lavoro degli altri (per gelosia o incapacità di comprenderne, appunto, il valore), si incontrano così tante persone indifferenti, si incontrano così tanti megalomani e distratti, che dovrete essere ben sicuri di voi e ben certi della vostra unicità per andare avanti.
Questo post contiene dei consigli e dovrebbe stare pertanto nella rubrica “Aggratisse! Consigli in libertà“, ma vorrei tanto che fosse permeato in tutto e per tutto da questa riflessione profonda sull’importanza di dare un valore alla propria attività e difenderlo, per farlo crescere e portarlo avanti. Per questa ragione questo consiglio, così importante e, per una volta, così serio, è spontaneo e gratuito, ma non è “Aggratisse!”.
Siamo la generazione del “tutto ha un inizio e tutto ha una fine”, abituati a ragionare su lavori a tempo, con scadenza tipo buone mozzarelle. E così oggi, che si è ufficialmente concluso un progetto di lavoro, dovrebbe essere un giorno qualunque.
In realtà, sarà perché ci ho lavorato per lungo tempo, ma forse più probabilmente perché ho messo tanto di me in questo lavoro – non solo competenze e conoscenze, ma soprattutto aspettative, passione, interesse, forza, tempo – un giorno qualunque non lo è per niente.
È piuttosto un giorno di ricordi e di risate, di consapevolezza del tanto lavoro svolto, di “si poteva fare meglio” (come talvolta recito monotona nella mia mente) e “angoli della mente che diventano curve nella memoria” (come molto più poeticamente canta Francesco De Gregori).
Di ritorno a casa dall’evento di chiusura del progetto, musica a tutto volume e un occhio attento alla bicicletta (che sono contenta di aver portato con me sul treno per la prima volta!), prendo atto che il progetto è proprio finito, che le tante persone con le quali ho collaborato, litigato, imprecato, riso, faticato, adesso, esattamente come me, vanno per la propria strada.
Però Tiziano Terzani mi ha spiegato e dimostrato come la fine può essere un inizio, e allora porto a casa i “sentiamoci, non perdiamoci di vista”, i vari “dobbiamo ancora lavorare insieme” e allo stesso tempo “che bello che arrivano le vacanze e ci si riposa”. Ma soprattutto mi porto un blocco d’appunti che, fra una fermata e l’altra del treno, in un’onda di entusiasmo, stanno già prendendo una bella forma!
Grazie a tutti i miei compagni di questo lungo viaggio, che mi hanno insegnato a come fare e anche a come non fare, forse non leggerete mai questo post, ma tanto lo sapete che vi sono grata di tutto.
Mezzanotte passata, silenzio tutto intorno, lavoro da circa tre ore. Concentrazione altissima, pure le zanzare lo hanno capito e da circa due ore mi lasciano in pace.
Ho letto, scritto, cercato, trovato, imprecato, esultato. Adesso è decisamente ora di spegnere il computer, ci rivediamo domani, fra qualche ora.
Osservo il materiale di lavoro sul tavolo: fogli colorati, bianchi, libri, appunti, tutto dedicato ad un nuovo progetto, che porta con sè nuovi ambiti, nuove persone, nuovi argomenti.
La precarietà è un supplizio, soprattutto quando non voluta, ma la libertà di cambiare progetti, di passare da un campo ad un altro portandosi sempre dietro le proprie competenze è, per me, di una bellezza che nessun orizzonte di stabilità può pagare.
Imparo ogni giorno cose nuove, scopro nuovi modi e nuovi mondi, utilizzo più linguaggi, guardo con occhi arricchiti.
Sei pesante, sei stressante, sei impegnativo, cambi ogni giorno e mi cambi ogni giorno, ma sei il lavoro che voglio e questo, proprio come accade con le persone di cui ci innamoriamo, ti rende unico e mi fa fare nottate!
A Natale bisogna essere buoni, a Carnevale bisogna essere allegri e divertirsi, a Pasqua e pasquetta è bene essere ecologisti, a Ferragosto bisogna essere al mare e al Primomaggio bisogna essere ovvi.
Il primo di maggio, impudente festa del lavoro, per essere in tema con la festa, con il clima da Primomaggio, bisogna avere indipendentemente dall’età la magliettina a maniche corte, i jeans comodi e dire ovvietà. Il repertorio delle ovvietà da dire è ampio, quindi è difficile non essere a tema, non preoccupatevi: puoi dire che vanno celebrati tutti quelli che sono morti per lavoro e mestamente ci puoi mettere dentro anche carabinieri, poliziotti & co., ma mestamente, perchè rischi di andare fuori tema; puoi parlare abbondantemente e con ricchezza di dettagli e statistiche dei ricercatori universitari, che con i loro studi lavorano al futuro di un Paese che invece li ha dimenticati negli scantinati dei laboratori e della precarietà, ma non parlare troppo di quelli che fanno studi di biologia, altrimenti gli ambientalisti più estremisti si arrabbiano e spaccano il laboratorio (insomma sei a tema se a jeans e magliettina aggiungi il cane a spasso); puoi parlare in lungo e largo degli esodati, ma lascia stare direttori di banca con intoccabili tredicesima e quattordicesima, lascia stare.
Per essere proprio proprio da Primomaggio e se magari hai un ruolo di rilievo nelle politiche sociali del Paese, puoi anche fare un appello alle istituzioni perchè facciano qualcosa per arginare la disoccupazione giovanile, puoi per esempio organizzare un grande evento, riempirlo di luoghi comuni (festa nella festa!), puoi alternare arte e riflessione, puoi avere facce di circostanza, puoi chiedere agli artisti di fare loro l’appello, che così è più cool e a loro aumentano i follower su twitter, ma mi raccomando: non chiedere cosa faranno domani tutti i montatori del palco, i tecnici, gli elettricisti. Non chiedere quanto dovranno contrattare domani tutti i musicisti (star escluse) per avere una serata in un pub a 70 € a persona e in nero; non chiedere quanti dei ragazzi del pubblico hanno un lavoro.
Mi raccomando, non ci rovinare la festa.
Durante il dottorato in archeologia, mi è capitato mille volte sentirmi chiedere “studi archeologia, e a che serve?”, così tante volte che sono finita per chiedermelo quotidianamente anch’io. A che serve spendere risorse, tempo, intelligenze, sullo studio di dettagli di storia antica, archeologia, numismatica, epigrafia che interessano solo gli addetti ai lavori? A che serve, nel mondo reale che affronta mille problemi e non si ricorda cosa era il giorno prima, conoscere la sequenza esatta di monete emesse duemila anni fa o le tecniche pittoriche di affreschi che tanto non vedremo mai?
Ora che sono più sicura di me stessa a che serve l’archeologia, dal punto di vista scientifico, lo so, l’ho capito e credo che alla fine un po’ tutti, anche i più scettici e modernisti le riconoscano il giusto valore.
Poi guardi questa foto, pubblicata sui giornali di oggi, e ne cogli un nuovo significato: l’archeologia serve anche ad emozionarsi davanti all’immagine di un uomo e una donna sepolti secoli fa mano nella mano, sguardi incrociati. Li hanno trovati così, senza carne e senza pelle ma pieni di amore.
E allora capisci che l’archeologia serve anche ad emozionarci davanti all’amore che ha vinto sulla morte.

Non c’è niente da fare, resta la nostra specialità, la nostra eccellenza, l’arte in cui noi ragazze diamo il meglio: spettegolare.
Salgo sulla metropolitana, una ragazza parla al telefono. Dalla sfilza di “tesora“, “tesorino“, “tutti-uguali-gli-uomini“, “io-per-te-ci-sono-sempre“, ma soprattutto “basta-parlarne-meglio-dimenticare“, intuisco che l’amica dall’altra parte del telefono è stata lasciata dal fidanzato.
La ragazza in metro conclude la telefonata con un auto-elogio che lasciava presagire il seguito: in sintesi, molto in sintesi, un “chiama quando vuoi, sai che di me ti puoi fidare“.
E infatti, neanche il tempo di chiudere questa telefonata, che resta attaccata al telefono e chiama cinque persone diverse, dicendo a tutte la stessa cosa: “ma lo sai che il Roby ha fatto le corna alla Sonia???” (nomi di fantasia, ndr.). Aveva appena finito di garantire alla poveretta il massimo riserbo sulla faccenda e in tre minuti l’hanno saputo cinque conoscenti e tutto il vagone!
Mentre telefonava come una forsennata a tutto il giro di amici in comune con l’amica tradita (a questo punto direi tradita da tutti, fidanzato e amica), io la guardavo incredula: ma come si può?
Poi penso che non vedo l’ora di raccontarvi l’episodio e allora capisco: non c’è niente da fare, la tentazione di spettegolare è più forte di noi!

W la vita da pendolare, che mi fa conoscere un sacco di storie (da raccontare in assoluto anonimato, però)!

Ancora non sono a bordo treno, sono aspirante tale.
Oggi c’è sciopero dei treni dalle 9.00 alle 17.00. correndo come una pazza, mi sono precipitata in stazione per arrivare prima dello sciopero ed evitare problemi.
La banchina è piena zeppa di gente, mi affretto pensando “mannaggia a me, ho perso l’ultimo treno utile”… Poi sento l’altoparlante: “avvisiamo i viaggiatori che i treno subiranno variazioni e ritardi a seguito di un investimento fra un treno e un gregge di pecore sui binari“… Un gregge! Il treno ha beccato un gregge in pieno!
Ora possiamo anche dare una lettura ambientalista all’evento e dire che in realtà ad essere fuori posto era il treno, perché le pecore seguono percorsi di pascolo e transumanza uguali da millenni e il progresso delle città  non è altro che un disturbo ai ritmi della natura, possiamo dispiacerci per le pecore, che poverine si saranno prese un brutto spavento…
possiamo guardare l’evento con gli occhi degli efficientissimi padani, che non vi posso dire quanto sono disturbati dall’episodio…  O possiamo semplicemente riderci sù, tanto ad imprecare mi sa che non cambia nulla, qua dobbiamo stare ad aspettare che il gregge venga spinto a continuare il suo cammino (e noi, come loro, il nostro)!
Always prepare before you make a choice. There is so much info about 99bandar at https://99bandar.id