Peggio della mancanza di lavoro, secondo me, c’è solo lo spreco di lavoro. E più è alta la penuria di lavoro, più è offensivo il suo spreco.
Viviamo tutti un momento critico: per i più giovani sono difficoltà respirate attraverso i pori della pelle tutti i giorni, tutti i santi giorni, festivi e feriali chissà per quanto tempo. Per i loro genitori è l’ansia di non aver saputo costruire nulla di più solido di un’effimera precarietà che in troppi hanno l’impudenza di chiamare “flessibilità”. Per la generazione dei nonni è piuttosto la confusione, a tratti l’impotenza e un potere che è quasi una condanna, condanna a restare, loro malgrado, nei ricordi degli altri come quelli che non hanno capito.
In questo periodo più che mai credo che sul lavoro dovrebbe essere declinata la pertinenza, nel pieno del suo significato: le persone dovrebbero svolgere il lavoro per cui si sono preparate, appassionate. Dovrebbero svolgere un lavoro che sanno fare bene, e solo quello: le parrucchiere non dovrebbero sbagliare colore o piega, i meccanici non possono sbagliare i pistoni. I giornalisti devono usare l’obiettività, e se non la conoscono che la imparino o si diano al romanzo.
C’è fin troppa gente in giro che si accontenta di un lavoro qualunque mentre cerca il lavoro di una vita, e che nell’accontentarsi però si appoggia come stampelle a serietà e professionalità e va avanti dignitosamente.
Per contro c’è pure fin troppa gente che scivola su allori regalati, dalle capacità evanescenti che occupano spazi impropri, gonfiati come grigie bolle di sapone dall’insolenza e la tracotanza.
Dovremmo andare verso un’ecologia del lavoro, riflettere su un sistema sostenibile e più giusto, che non preveda sprechi e scorrettezze, che rimetta tutto al suo posto, che rifiuti meccanismi superflui.
Un sistema sostenibile, basato su scelte semplici, connessioni comprensibili: se sai fare le cose, bene: questo è il tuo posto; se non le sai fare, ma le vuoi imparare, bene: questa è la tua occasione; ma se non le sai fare e non le vuoi imparare, allora forse è più giusto che quel posto lo valorizzi – attenzione: valorizzi, non occupi – una persona più appassionata e competente, tutto qua.
Semplice e logico, come i fiori.

Esco dall’ufficio tardi, perdo treno, altro treno, la bici ormai è rimasta chiusa nel deposito della stazione, l’ultimo autobus è già passato, insomma non mi rimane che il taxi. 

Il tassista ormai mi conosce, si chiacchiera. Arriviamo a parlare di sport invernali, io – gli dico – non scio, scivolo, quando non rotolo. Lui mi dice che sciare gli piacerebbe, ma non può farlo perchè se si fa male, ad esempio si rompe una gamba, non può lavorare. Esattamente ha detto “e come faccio con il lavoro?“, con un tono allo stesso tempo malinconico e pragmatico, emozionale e razionale che mi ha colpito. Mi è arrivata tutta la dignità di chi non elemosina una vacanza, di chi non la pretende da nessuno, men che meno da uno stato che è così altrove che neanche viene contemplato.

Io vorrei che questo tassista girasse per ore, per giorni e notti intere per la città trasportando a turno tutti questi signori che in un momento storico così grave ed urgente si permettono di prendersela comoda, si permettono di giocare di ruolo, si permettono di speculare. Vorrei che li portasse in giro  giusto il tempo di dire loro “e come faccio con il lavoro?” come l’ha detto a me, senza attese nè pretese, e poi lasciarli lì, in mezzo ad una strada.

Necessariamente deve esserci qualcosa, oltre il semplice senso del dovere: oggi c’è sciopero dei mezzi pubblici, e io che vado a lavoro utilizzandoli, avrei avuto non poche difficoltà muovermi fra i treni che scioperano in una fascia oraria e la metropolitana che sciopera in un’altra. Quindi ho preso la macchina e, temeraria, mi sono lanciata dalla provincia a guidare a Milano, che in orario di punta in una giornata di sciopero non è esattamente agile. Dopo peripezie varie (ma vi posso garantire che quei 413 pedoni non li ho stesi io, erano casualmente lungo il mio percorso), sono arrivata. L’ho fatto senza alcuna idea di straordinarietà, ma semplicemente perchè avevo un lavoro urgente da terminare. In realtà l’urgenza non è poi così urgente, avrei potuto farlo anche lunedì, ma avevo promesso che l’avrei fatto oggi e dunque sono qui.

In questa giornata di sole bellissimo, con l’ufficio mezzo vuoto e la città in delirio, mi domando cosa c’è dietro (o dentro) la mia presenza qui.
Alcun lettori adesso staranno ridendo di me, dicendo che c’è stupidità, ingenuità; altri staranno pensando che sono dannatamente attaccata al lavoro, che non mi so prendere spazi di vacanza e mi merito una certa dose di stress quotidiano.
Io la chiamo serietà: avevo promesso che avrei finito oggi e, cascasse il mondo, finisco oggi.
Serietà, o etica professionale: alcuni ritengono sia barattabile con qualunque cosa, altri la vendono – cara, ma la vendono – e quando si vende la propria etica in ogni caso la si svende.
Altri pensano sia ininfluente, pensano che nessuno la noti in un mondo che corre veloce e osserva superficialmente e per questo motivo non la valorizzano mai abbastanza. Poi magari incontrano chi la tua serietà la apprezza e ne restano meravigliati, colti proprio di sorpresa non tanto dalla serietà in sè, quanto colpiti nel vedere che esistono persone attente.
Altri non la conoscono neppure. Altri non la conoscono neppure.
Doveva essere un tortino, ma è venuto fuori uno sformato, anzi un deformato, visto che si è sfracellato a pezzi… Io però ve lo consiglio ugualmente, perchè il sapore è buono e lo sarà anche domani per un pranzo comodo comodo.
Prendete dei carciofi surgelati (si, prendeteli surgelati perchè se vi mettete a pulire e spinare e sfogliare non vi passa più) e dei fagiolini (surgelati anch’essi, tanto ormai siete sul surgelato spinto)… Fate cuocere per dieci minuti in acqua calda e nel frattempo pelate tre patate e affettatele sottili e nel frattempo scaldate pure il forno. Preparato tutto? Bene! Nella pirofila va prima uno strato di patate, poi carciofi e fagiolini, pangrattato e parmigiano grattugiato. Un ultimo strato di patate, sale e olio e poi in forno per circa 30 minuti.
Se avete pazienza e tagliate i carciofi e se abbondate di pangrattato il tortino ha buone possibilità di restare tale e non trasformarsi in deformato.
Ah mi raccomando il sale! L’avessi messo anch’io sarebbe stato perfetto…!
La febbre è come la neve, ti costringe a rallentare e a vedere gli oggetti intorno disegnati con un nuovo profilo.
Guardo dalla finestra la neve danzare e penso che le pause forzate, dal punto di vista lavorativo, sono le migliori: arrivano quando meno te lo aspetti e ti impongono di mettere in secondo piano il lavoro per dedicarti a te stesso. E così, come se fosse un oggetto ridefinito dal contorno bianco, guardi il tuo lavoro come sotto una luce nuova e ti fai nuove domande. Io, per esempio, mi sto chiedendo se sia giusto che un’intera generazione, ma forse anche due, debbano rincorrere così ritmi sempre più veloci a fronte di cambiamenti sempre meno epocali, di diritti sempre più sindacabili e doveri sempre più forzosi.
Oggi la mia pausa entra in un silenzio più grande, la riflessione pre-elettorale, che ci porterà lunedì ad una nuova legislatura. Ho sentito pochissimi politici parlare di cultura, di sviluppo lavorativo in ambito culturale, di crescita e sostegno ai settori potenzialmente più ricchi e dinamici della nostra società, ma che invece sono tristemente quelli più fermi e sofferenti. Quei pochi che li trattano si dividono in due categorie: da un lato quelli che ne parlano in termini così banali e superficiali, che farebbero meglio a stare zitti, dall’altro quelli che urlano e creano slogan così gretti, vuoti e irrealizzabili, che farebbero meglio a stare zitti pure loro.
La nostra cultura, oggi, non è solo impoverita, è anche svilita, deprezzata, maltrattata.
E’ una cultura ferita al cuore da parte dei tanti burocrati incompetenti, dei tanti amministratori miopi, da quanti fra noi cittadini la ritengono qualcosa di altro dalle nostre vite, un accessorio eccentrico e snob che dona solo a pochi.
Io non so dire cosa succederà da lunedì 25 febbraio 2013 al mio lavoro e a questo Paese.
So per certo però, che gli esiti di queste elezioni incideranno profondamente sul mio lavoro, come su quello della mia parrucchiera, del panettiere sotto casa, del bar di fronte. Le politiche amministrative dei prossimi anni investiranno le decisioni di vita dello spazzino e del professore, dell’operaio e del notaio e incideranno soprattutto sul rapporto fra la loro vita e la cultura, o meglio, riguarderanno l’incidenza della cultura sulla loro vita.
Per questa ragione vorrei che a governarci ci fossero persone che hanno fatto della cultura – in qualsiasi campo, sia essa cultura del mangiare, del viaggio, del gioco, del sapere scientifico, cultura d’impresa – la loro ragione di vita, per riportare le nostre vite ad essere il vero patrimonio culturale immateriale di questo Paese.
Persone così fortunatamente ce ne sono tante candidate nelle diverse liste per tutte le elezioni aperte, si trovano trasversalmente fra movimenti, partiti, gruppi coalizioni e la loro presenza mi fa essere ottimista sul futuro. Uno di loro è in corsa per una nuova Lombardia, si chiama Giancarlo Cattaneo e gli auguro di dover lavorare tanto per i prossimi cinque anni!
Di questo deve essersi trattato, necessariamente di una difesa. Una difesa del proprio posto di lavoro, perchè se il proprietario della ditta per cui lavora applaude e ride sul palco, e magari fra il pubblico che ride ci sono gli azionisti di maggioranza, non c’è proprio altra via d’uscita.
Di difesa deve essere stata la risata, difesa dall’imbarazzo.
Di difesa anche i tentativi di uscirne, di trovare parole adatte, di difesa del proprio essere donna, che se fosse stato un uomo al posto suo non sarebbe potuto succedere.
La verità è che puoi difendere il tuo lavoro da tutto, dalla crisi, dai raccomandati, dalle truffe, ma non puoi difenderlo da chi ne dovrebbe tutelare la dignità.
Il giorno stesso in cui ho deciso di iniziare la rubrica “A bordo treno” mi è capitato di assistere all’episodio che qui descrivo; in un rapporto semplicissimo di causa-effetto, posso dire che questo episodio è stata la scintilla ispiratrice dell’intera rubrica: leggete e capirete…
Treno del ritorno, orario di punta, stanchezza, gente di fretta, corse per trovare un posto a sedere.
Salgo e trovo un posto finestrino, accanto a me un uomo di mezza età, di fronte una ragazza, accanto a lei un tipo curioso: cinquantenne credo, di taglia abbondante, bretelle colorate sulla camicia (dettaglio importante, a me le bretelle stanno simpatiche); leggeva un libro e aveva anche delle maxi cuffie alle orecchie con musica bassissima, e lo dico con certezza perchè sul volume della musica garantisce il mio super-udito: io non riuscivo a sentirla e questo significa che lui riusciva a sentire voci e rumori del treno.
Si parte, alla prima fermata salgono tre sudamericani, due donne e un uomo, marito di una delle due. Sono persone per bene, semplici ed educate, parlano a voce bassa di questioni religiose.
In particolare, le donne si pongono interrogativi sulla vita dopo la morte e l’uomo risponde loro citando con precisione passi della Bibbia e fornendo così una spiegazione a tutto. Io li guardo con la coda dell’occhio per non invadere uno spazio tutto loro, ma li ascolto attenta e ammirata: le domande delle due donne sono profonde e lui mi sembra la personificazione di un’idea di religione: risposte semplici e dirette alle grandi domande dell’umanità con un sorriso paterno e una materna verità.
Torniamo a noi: loro parlano, parlano, ma ripeto, in maniera educata, a voce bassa, non disturbano. Non sembrano disturbare. Il tizio con le cuffie comincia a sbuffare.
Sbuffa, sbuffa, sbuffa (“ma che ha?”, mi domando io)… Sbuffa, sbuffa, sbuffa… Esplode! Rosso in faccia, urla “Dio non esiste!!!!! Lo volete capire!!!???“. Tutto il vagone si gira a guardarlo, i tre sudamericani si allontanano velocemente atterriti, io e la ragazza lo guardiamo esterrefatte, il signore accanto a me prova a rasserenarlo, ma tanto non serve più: scomparsi i tre, lui ritorna normalissimo e riprende tranquillamente la sua lettura.
Io arrivo alla mia fermata, scendo e lo lascio lì, ancora tranquillo a leggere. Dal finestrino vedo che un’altra persona si siede al mio posto, non può sapere cosa si è persa!
Che ne dite, non è un buon inizio per questa rubrica…!?
Appena passato il II compleanno di 104 curriculum, che subito arriva un altro traguardo da festeggiare: 20.000 visualizzazioni!
104 curriculum è stato visto 20.000 volte!
Nel mondo del web, dei grandi blog, dei personaggi sconosciuti ma famosi, dei prodotti virali, della grafica accattivante, 20.000 visualizzazioni è un risultato da poco, che magari si raggiunge in un paio di giorni.
Ma per 104 curriculum, che non è niente di tutto questo se non una piccola stanza ironica e sarcastica piena di disegni e pensieri su come va il mondo, è un grande risultato!
E nella mia testa in questo momento non ci sono post pronti, non ci sono riflessioni ardite o aneddoti comici, nè nuovi tarocchi nè antiche ricette… Non c’è altro che ventimila volte grazie!
La rivoluzione nasce dalle idee semplici ed è trasportata da messaggeri semplici, o almeno così credo.
Cosa c’è di più semplice, in fondo, dell’idea di giustizia, di equità, di libertà…? Cosa c’è di più semplice della ruota, del fuoco, del vetro? E in cucina, cosa c’è di più semplice di una minestra? Nulla! E da qui è partita la mia piccola e poco pretenziosa rivoluzione.
Lavoro in un ufficio dove si va a pranzare fuori tutti i giorni. Divertente, la compagnia è simpatica ed è un modo per conoscersi, ma io sono la regina delle ricette per la pausa pranzo, sono l’ispiratrice della polpetta fai da te, sono la propinatrice delle melanzane d’ufficio, e col passare dei giorni mi sentivo a disagio! A me non ribolle il sangue, ribolle il brodo, e così ieri ho deciso di rompere questo schema e annunciare che non sarei uscita a mangiare perchè mi ero portata il pranzo da casa: facce stupite, quasi perplesse…
Questo è stato il mio gesto della serie “rivoluzione in pillole”, quella che arriva vestita di stracci di gesti di nullo valore.
Adesso, immagino, vorrete conoscere la ricetta della mia minestra… Ma i bravi minestrari sanno che la minestra non ha ricetta, si nutre delle verdure rimaste nei cassetti del frigorifero, acqua e poco sale, con predominanza, se possibile, dell’ortaggio preferito o, in mancanza, il brivido della scoperta di nuovi intriganti mix.

So a che cosa state pensando, amici miei, reazionari alimentari: alle difficoltà a trasportare la minestra senza lasciare la scia sugli scalini della metro, e a come darle più sapore senza far rotolare una forma di parmigiano davanti a voi nel percorso casa-ufficio e senza olio à-porter… Non voglio lasciarvi margini di argomentazioni: la minestra non si versa nella borsa se trasportata in apposito contenitore ermetico e vi basterà portare un pezzotto di parmigiano da fare a scaglie e tocchettini  e mollare a tuffo nella minestra subito dopo il passaggio in microonde per farla diventare unica!
Io ho aggiunto anche i grissini rustici a mo’ di crostini, fate un po’ voi…
In ogni caso, non avete più scuse per non fare il vostro piccolo gesto da autentici rivoluzionari!
Cari amici, nasce una nuova rubrica all’interno del blog: A bordo treno!
Come ho detto già in altri post, ho pendolato in treno da casa a scuola fin dalle medie, poi alle superiori, all’università, per lavoro… Insomma, se avessi una tessera punti per i viaggi fatti da pendolare, a quest’ora avrei vinto due biglietti per l’Orient Express!
Chi viaggia quotidianamente lo sa, se ne vedono di tutti i colori: viaggiatori che impazziscono per l’ennesimo ritardo, suonatori, gente che dimentica la valigia; senti e vedi storie di ogni tipo – soprattutto ascoltando le telefonate del vicino di posto – entri per un tratto nella vita altrui, ne condividi ansie e attese e poi ne esci come nulla fosse scendendo alla tua fermata.
La gente in treno fa e dice di tutto: si trucca, insulta, mente, dorme, disturba, chiacchiera, lavora la maglia, legge, gioca, ride, pensa, osserva, si racconta.
E’ uno scenario che si rinnova ogni giorno: alcune persone le incontri sempre – ma sono ogni giorno diverse – altre una volta sola e resti lì a fantasticare su come stia proseguendo il loro viaggio, la loro vita. Non avendo orari di lavoro fissi, peraltro, prendo treni diversi e incontro ogni tipo di pendolare  possibile: c’è il treno delle sette pieno di studenti e insegnanti, quello delle otto è dei professionisti, quello delle nove delle commesse, quello delle sei è degli operai.
Solitamente le storie più comiche si trovano al ritorno, quando la stanchezza e l’attesa portano a reazioni esasperate (ho già un paio di aneddoti di quelli surreali ma veri, come piacciono a noi), mentre per gli aggiornamenti da gazzettino locale i treni della mattina sono l’ideale, perchè amiche e colleghe si aggiornano su ricette, acquisti, storie, amori…
Insomma, quando acquisti il biglietto, in realtà oltre al viaggio (che spesso dovrebbe essere gratis, viste le condizioni) compri soprattutto lo spettacolo, così umano e vivo che non posso non raccontarlo!
Spero che “A bordo treno” diventi presto una rubrica con più autori, perchè immagino che anche voi di aneddoti da raccontare ne abbiate tanti… Bene, questo è solo l’inizio, continuiamo a viaggiare insieme dal nostro personalissimo “Binario 0”!

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