Qualche giorno fa mi sono ritrovata nel mezzo di un “career day”, uno di quegli eventi organizzati dalle università che prevedono incontri fra alunni in cerca di sedi per stage e aziende in cerca di stagisti (e spesso la ricerca dei primi legittima le seconde a non pagarli, con la scusa che “è per la vostra formazione”, ma per ora soprassediamo su questo aspetto).
Ero lì per raccogliere un po’ di nominativi e cv interessanti in vista di possibili nuovi progetti per conto di un’azienda con cui collaboro. Insieme ad un collega, siamo partiti pensando che avremmo fatto giri per gli stand, ci saremmo potuti presentare a grandi aziende, sviluppare contatti, dal momento che la nostra società è piccola e opera nel settore culturale che purtroppo non è economicamente così interessante come potrebbe, per cui, credevamo, di scarso interesse per gli studenti.
Illusi… Appena hanno aperto l’accesso agli studenti c’è stato l’assalto al nostro stand! Decine di ragazzi a fare la coda per lasciare il loro curriculum e giocarsi non so bene cosa in colloqui che più trascorrevano le ore, più si abbreviavano per lasciare spazio a tutti.
E così ho potuto osservare direttamente questi ragazzi mettere su carta il loro passato, il loro presente e, soprattutto, il loro futuro. Facce pulite e spaesate, furbetti da “un giorno in meno in aula”, scaltri da “armiamoci e partite”, intelligenti da “ecco le mie capacità e il mio impegno, eccomi qui”.
Quello che mi ha colpito di più è un elemento che accomunava molti di loro: sia i più preparati che i più avventurieri non avevano minimamente idea di quali siano le figure professionali principali del nostro settore, quali i ruoli, i compiti, le attività. Ferratissimi dal punto di vista teorico, assolutamente bianchi sui risvolti pratici della professione.
E’ vero che molte cose le si impara lavorando e che proprio l’esperienza ti fa capire verso quale settore vorresti indirizzare la tua attività, però sento parlare da quando ero studente di avvicinamento fra università e mondo del lavoro e se i risultati dopo 15 anni sono questi, c’è davvero da riflettere!
Chiariamo: io non sono per una formazione tecnica che abbia il sopravvento sui contenuti scientifici e culturali, credo anzi che l’università debba proprio cercare di ampliare e approfondire il più possibile il bagaglio di conoscenze con le quali ciascuno di noi vi arriva.
In questo bagaglio, però, dovrebbe ricordarsi di inserire anche informazioni concrete e prospettive il più possibile realistiche su quello che è o, meglio ancora, sarà il mondo del lavoro.
Questo non significa solo favoleggiare sui più grandi che ce l’hanno fatta, chè va bene che favoleggiare fa nascere sogni, ma spesso fa anche crescere illusioni. Significa anche spiegare ai ragazzi che stanno studiando per diventare A, B e C, ma potrebbe loro capitare per più o meno tempo di essere D o appassionarsi ad E, o virare su tutt’altra Z qualsiasi.
Non è ammissibile che dopo anni di tasse, ore in aula, giornate di studio, i ragazzi debbano poi entrare nel mondo del lavoro così inconsapevoli sui propri diritti, doveri, sulle loro stesse aspettative e su quanto gli altri attendono da loro.
Basterebbe davvero poco: uffici di orientamento e accompagnamento efficienti, coordinamento stage e tirocini che lavorassero non per affibbiare agli studenti un posto dove passare un paio di mesi, ma pensassero a fornire loro un reale contesto di crescita. Non voglio generalizzare, in molte università tutto questo c’è e funziona bene, ma sono sicura che si può sempre migliorare.
Basterebbe poco, che l’Italia invertisse la rotta e reintroducesse la parola “Futuro” nel dizionario del quotidiano e anche le università si adeguerebbero al cambiamento.
Tante piccole cose stanno cambiando in questi giorni nel mio lavoro semplicemente perchè ho iniziato a ripensarmi un po’.
Anzitutto ho cambiato postazione: prima era in cucina, calda e accogliente, ma con vista sui palazzi di fronte, ora è in una stanza uso studio, uso stireria, uso palestra, uso deposito, termosifone sotto ai piedi e bellissima vista su un gran giardino mille colori.
Ho cambiato il modo di presentarmi, rivedendo l’immagine degli strumenti di lavoro: ho ideato una linea grafica per carta intestata, portfolio, curriculum, che mi ha dato grande soddisfazioni! La grafica è semplicissima in realtà, qualunque web design la guarderebbe con tenerezza e ironia, ma siccome sono riuscita a far corrispondere aspetto grafico con una riflessione sui contenuti, allora sono contenta e soddisfatta.
Anche la composizione del portfolio è stata complessa, avendo un curriculum tutt’altro che choosy ho riflettuto giorni per valutare se inserire i progetti per settore, per tipologia di attività, cronologia, dimensioni… Togliendo colori, aggiungendo esperienze, modificando forme e parole, alla fine è venuto fuori un portfolio dignitoso… Che fatica!
Ho riorganizzato la documentazione, sia cartacea che in file: ora i ripiani della libreria hanno un loro perchè e nel computer è più facile trovare quello che cerco.
Con uno scampolo di nappa arancio ho realizzato un tappetino per il mouse, con altri ci farò un tappeto per la stanza.
Devo solo aggiornare il profilo sui social network professionali e il lavoro è quasi concluso.

Il lavoro di riorganizzare il proprio lavoro è complesso ma piacevole.
Arrivi ad un punto in cui diventa necessario: devi fermarti un paio di giorni e rivedere tutto l’insieme, altrimenti hai la sensazione che qualcosa ti stia sfuggendo di mano. E magari riemergono idee e riflessioni che sedimentano da mesi, crescendo dentro fino a trovare sfogo tutte insieme: idee di nuovi progetti, nuovi tentativi, nuovi percorsi.
Fermarsi a riflettere, provando a guardarsi con obiettività, è fondamentale per proseguire nel modo migliore. Ho capito, per esempio, che in certi periodi ci si appoggia su finte certezze e si fanno diventare alibi o problemi insuperabili quisquilie alle quali solitamente non si da alcun peso.
Ho capito, ma ri-capito sarebbe più adatto, che in contesti dalle dinamiche poco chiare, troppo impegno non sempre è premiato, per cui forse è meglio indirizzarlo altrove.
Visto da fuori, sembra che stia semplicemente facendo ordine, in realtà mi sembra di aiutarmi a ripartire meglio… Consapevolezze che fanno stare bene in un sabato pomeriggio con un buon caffè.

Una nuova postazione, un nuovo giro di giostra, nuove idee…
Il giardino cambia di giorno in giorno, in questa stagione da il meglio di sè.
Computer, libri, quaderni, penne. Caffè, acqua, piante grasse e un tappetino del mouse fatto da me.
Dalla stanza accanto arriva musica… Intorno a me ho tutto ciò che mi serve.
Sono una ragazza fortunata.

Ieri ho partecipato al concorso per Miss Italia, e ci tengo a precisare che, pur essendo la più anziana, non ero la più brutta!
Ovviamente non era un concorso di bellezza, ma ci siamo andati vicino.
Un’associazione bandiva una selezione per figure professionali simili alla mia, cercavano esperti di comunicazione in beni culturali, promotori, organizzatori eventi, responsabili di attività didattiche, curatori e altro simile (l’altro simile potete aggiungerlo voi: qualunque figura in ambito culturale vi venga in mente ma non sapreste definire con meno di dodici parole va bene).
Con un’amica decidiamo di andare a vedere di che si tratta e partecipiamo entrambe alla selezione.
Inizialmente più che una selezione sembrava una corsa ad ostacoli: non potevi essere ammesso alla selezione se non eri presente all’evento del giorno prima (e poi stai giornate intere a sbattere la testa su come garantirti una sala piena ai convegni: basta legare la conferenza ad un concorso di lavoro e si fiondano in mille!); non potevi partecipare se non lasciavi il curriculum corredato di lettera motivazionale, nel senso che la lettera era obbligatoria (e la mia era di una comicità sopra le righe che confido nel senso dell’umorismo di chi la leggerà); si poteva inoltre portare un portfolio non meglio specificato. Anzi, così poco specificato, che gli si attribuivano, in valutazione, fino a 50 punti su 100, ma si poteva anche non portare. Da ultimo, 70 punti su 100 erano attribuiti in base all’esperienza, ma si cercavano persone alle prime armi…
Più confuse che persuase, la mia amica e io, dopo un paio d’ore per realizzare i nostri portfolio (il suo è bellissimo, il mio rimette in discussione le più basilari regole della grafica) ci lanciamo nell’avventura.
Primo giorno, convegno con interventi sul tema della promozione e management culturale: argomenti triti e ritriti, ma tutto sommato sempre interessante.
Secondo giorno, la fatidica selezione. Siamo tanti, tantissimi. Una massa inattesa per gli organizzatori che, invece di dividerci in gruppi per colloqui brevi ma sensati, invece di rimandarci ad un colloquio dopo la scrematura dei curriculum, invece di fare notte pur di ascoltarci tutti, con un guizzo di genio, un lampo da strateghi cosa decidono? Di farci presentare dicendo nome, cognome, età e ruolo per cui ci si candida, insomma, la presentazione delle miss ad inizio manifestazione!
Uno alla volta sfiliamo verso il microfono, avviando la processione con tutti i cliché del caso: i più furbetti preso in mano il microfono non lo mollano più e raccontano di tutto: studi, esperienze, formazione, capacità, raccontando di lavori così belli e invidiati che tutti ci siamo domandati “e allora che ci fai qua?”; le più carine si presentano con sguardo languido e rivolgendosi solo agli uomini della commissione valutatrice, i timidi balbettano, gli artistoidi parlano in maniera difficile, i pratici e i disillusi come me e la mia amica dicono esattamente solo quello che viene richiesto e tornano al posto.
Ora io non lo so se in quei 72 secondi sono riuscita a catturare l’attenzione, a rendermi interessante agli occhi della commissione, però… Non lo dico per giustificarmi, ma se mi avessero avvertito per tempo, da brava miss avrei detto che sono per la pace nel mondo e avrei sicuramente attirato consensi!
Oggi ho rivendicato ed esercitato un diritto, il diritto di indignarmi davanti all’ignoranza, alla mancanza di merito, all’insolenza.
Dicono che i soggetti più pericolosi con i quali avere a che fare siano gli stupidi. Loro rappresentano sì una gran perdita di tempo e, talvolta, di occasioni, ma uno stupido buono, un sempliciotto, si lascia indirizzare ed è capace di darti tanto, che poi magari è poco secondo certi parametri, ma diventa tanto in relazione con il suo modo d’essere e le sue capacità.
Non è dunque alla stupidità, che mi sono indignata.
Poi  è arrivato un certo modo meschino, di confondere i presenti per coprire le proprie mancanze. Questo modo di fare, di ingarbugliare le discussioni, di mimetizzarsi senza la bellezza del camaleonte e privo di un’astuzia intelligente, purtroppo, è sempre più diffuso in qualunque ambito delle nostre vite, delle nostre giornate: vedi amanti che non hanno il coraggio di lasciarsi con schiettezza e inventano scuse qualsiasi, vedi negozianti che ti dicono che ti sta benissimo quel vestito che ti fa sembrare informe, vedi consulenti che tirano per le lunghe favoleggiando su difficoltà che solo loro possono risolvere, e allora contestualizzi la meschinità.
Alla meschinità ho cominciato ad indignarmi, ma in maniera contenuta.
C’è stato poi un delirio di parole vuote, di pressapochismo, di difese indifendibili, di unghie che si aggrappano allo specchio e di specchi che non hanno nulla da riflettere. C’è stata la tracotanza, al giorno d’oggi poco citata ma molto praticata, ci sono state accuse false contro assenti che non avevano parole; c’è stato un innalzamento di toni e una presa di confidenza che nessuno aveva mai dato, c’è stata cattiveria, quella cattiveria figlia della piccolezza, la cattiveria più infima.
Tutte insieme sono arrivate, con la cattiveria, anche l’ignoranza, che subito ha tolto il velo alla mancanza di merito, e l’insolenza, che voleva rimettere a posto quel velo ma aveva mano troppo poco delicata per riuscirci.
Alla cattiveria, all’ignoranza e all’insolenza non ho resistito.
Non ho resistito e mentre argomentavo, rispondevo, illustravo con dati certi e verificabili, ho preso coscienza che stavo parlando con la mancanza di merito, quella che fa dire qualunque stupidaggine, qualunque meschinità, qualunque cattiveria come se nulla fosse, perchè tanto non ci si è mai preoccupati di riflettere, pensare, valutare.
E alla mancanza di merito sono esplosa.
Ho alzato la voce, mi sono alterata, ho usato parole pesanti, ho sbagliato, ma la mancanza di merito, e la sua legittimazione, no, non ho più la pazienza di accettarle.

Credo non sia servito a niente, se non ad illudermi di aver dato un contributo ai diritti dei giovani lavoratori che provano a mettersi in gioco, a rischiare, che investono nella propria formazione e rispettano il proprio lavoro e quello altrui, che magari leggendo questo post troveranno il coraggio o la leggerezza necessari per pretendere rispetto e competenza dalle persone con cui lavorano.

Lo canto a squarciagola sul più noto tema di Mina “Parole, parole, parole”, mentre riempio la carne di “muddica cunsata” e respiro Sicilia in terra nordica.
La ricetta è semplice, è la spiegazione che è complicata, perchè è molto localizzata e corrisponde, come tutte le ricette tipiche, ad una vera e propria filosofia di vita.
Cominciamo con il nome: noi le chiamiamo “braciole”, caricando sulla ‘o’ accentata tutta la nostra idea di pieno, di sazio, di gusto su quel piatto che l’universo mondo al di fuori della provincia di Messina conosce come “involtini”, che fa più elegante e misurato, perciò non rende proprio l’idea di esagerazione che ci accompagna in ogni manifestazione della vita!
Ero già grande quando ho scoperto che per voi le braciole sono la bistecca di maiale…
Passiamo al taglio: anche questo, fuori dal territorio messinese, non c’è, non si trova. Sparuti macellai palermitani e catanesi ci provano, ma con risultati, non me ne vogliate, veramente lontani dalle nostre braciole… E allora voi, amici vicini e lontani, che volete avventurarvi nella preparazione delle braciole, chiedete all’amico macellaio il taglio cotolette o brasato, e che la fetta sia sottile ma veramente sottile…
Chiudiamo con il condimento: chi segue il mio blog, lo conosce già! Pangrattato, parmigiano grattugiato (forza con quelle braccia! No a buste di anonimi formaggi simil parmesàn, comprate un bel pezzo di Parmigiano, possibilmente di quello in offerta perchè sopravvissuto al terremoto, e grattugiatelo voi), prezzemolo e aglio tritati finemente, un filo d’olio, formaggio a pezzetti.
A questo punto, il difficile è superato e arriva il divertimento: fetta di carne, condimento in centro, rotolino chiuso ai lati e infilzare allegramente con uno spiedino, per un totale di 5-6 braciole per spiedino.
Cucinatele alla brace, alla piastra, in padella, al forno, fate come volete, sempre buone sono!
Io le ho mangiate stasera e lo spiedino rimasto me lo porto domani per pranzo con insalata di pomodori di contorno… E spero vivamente e sinceramente che possiate fare lo stesso anche voi!
Buon pranzo!
C’è chi si butta a capofitto a cercare altro, c’è chi ride a crepapelle perchè la disoccupazione gli ha restituito un po’ di profumo di vita, c’è chi si sente abbandonato e tradito.
Quando finisce un lavoro ci sono mille diverse reazioni, mille domande e altre mille ricerche che partono, curriculum che volano da una casella mail ad un’altra ed un’altra e un’altra ancora.
In ogni reazione, però, qualunque essa sia nel ventaglio che va da un esagerato sconforto all’eccessivo entusiasmo, c’è una profonda dignità, c’è coraggio, c’è resistenza.

Ieri sera ero con un gruppo di coetanei: uno avrebbe iniziato a lavorare oggi, una ha finito ieri, un’altra che ha chiuso una carriera cambiando completamente settore e si sta formando per essere all’altezza, io che cerco di stare in equilibrio fra un incarico e una consulenza, un’avvocatessa che non ha mai l’assoluta certezza che dopo un cliente da assistere ne arriverà sicuramente un altro…
Si vedevano pensieri rimbalzare da una testa all’altra, pensieri pesanti, profondi, che toccano le scelte di vita più serie e impegnative, che riguardano case e vacanze, mutui e bambini, solidarietà ed egoismo. Eppure nessuno che si lagnava, nessuna lamentela, nessuna pacca sulla spalla. Abbiamo riso tutto il tempo, raccontando aneddoti, ricordando amenità, cattive figure, momenti di mutuo soccorso… che bella serata!
Le stanno tentando tutte per rubarci presente e futuro, per farci credere che non saremo mai all’altezza, per toglierci spazio e tempo… Ma noi, noi resistiamo! Noi ridiamo e andiamo avanti!
Tenetevi i vostri privilegi, tenetevi strette le pensioni, le tredicesime e le quattordicesime, tenetevi le vostre granitiche certezze pesanti come macigni che stanno sgretolando la fragilità che ci avete costruito sotto! Che forza che siamo noi, precari dal sorriso facile!
Che forza che siamo noi, che andiamo avanti e resistiamo!

Letteralmente “aggrappata” alla connessione internet del bar dell’aeroporto, rifletto dopo una ulteriore fase del progetto ENVOY.
I referenti della Bulgaria, Paese ospitante, li abbiamo salutati frettolosamente ieri sera, in una partenza in autobus rocambolesca e con tanto di passaggio notturno della frontiera che fa tanto clandestini di ritorno!
Le delegazioni dei Paesi partner, Italia inclusa, sono partite, e io qui aspetto il mio volo (lunga lunga attesa) e rifletto.
Ripenso a queste giornate di lavoro, un lavoro privilegiato, che mi permette allo stesso tempo di fare ed osservare, ignorare e capire, arrabbiarmi e pazientare.
Penso a chi ci ha ospitato offrendo semplicità, concretezza, contenuti, dignità e simpatia e mi emoziono ricordando certi sorrisi gentili, certi spazi semplici, certe osservazioni così profonde.
E ripenso al gruppo italiano: tutti (me inclusa) sempre confusionari, in ritardo… Ognuno per i fatti suoi, ognuno ad inseguire il proprio caffè, a guardare il proprio telefonino, a parlare un inglese stentato, a lamentarsi ed annoiarsi. Non è una riflessione rivolta a nessuno in particolare, nè solo a quelli che eravamo presenti all’evento, per quanto da lì arrivi l’ispirazione… In questa descrizione improvvisamente, mentre davanti mi passa l’Europa che corre al lavoro, che prende un aereo per cercare nuove fortune, che con passaporto romeno vende un’insalata greca ad un tizio che sembra inglese, io vedo l’Italia disordinata, che non ce la fa a stare al passo. Un’Italia senza idee e senza contenuti e ho paura che sia tutto così il nostro Paese…
Poi ripenso pure alle risate fatte in questi giorni, a come siamo riusciti a risolvere anche questioni molto ingarbugliate, a come riusciamo, nonostante tutto a farci volere bene, e allora spero… spero… Spero che per il prossimo evento ENVOY non ci siano tutti questi intoppi e che adesso il mio volo si decida a comparire sul tabellone del check-in!

Oggi ho avuto tre-ben-tre telefonate con una persona che ha il brutto vizio di impostare un dialogo come fosse un monologo, cioè parla solo lei.

Una chiacchierona come me certi post non dovrebbe scriverli, ma almeno a me in molti riconoscono capacità di ascolto e nel dialogo, soprattutto di lavoro, do spazio a tutti! 
Questa persona di oggi no, assolutamente! Da quando ho risposto al telefono non ha fatto altro che parlare lei, granitica, sicura, affrettata, con un tono a metà fra il “uè ciccètti, rapido!” e il “presto che devo correre a togliere la pentola dal fuoco che si sta bruciando!”, insomma: insopportabile!
Ogni mio tentativo di inserirmi nella discussione, approvare, spiegare, è stato inutile, secondo me aveva il discorso scritto e si era pure esercitata a leggerlo tutto d’un fiato, altrimenti è fisicamente  impossibile che ci sia riuscita con naturalezza e spontaneamente!
Peraltro non è la prima volta che lo fa, anzi, tutte le volte che ci parlo al telefono è sempre la stessa storia, ormai sono preparata all’assalto del carrarmato!
Sono certa che di persone così ne incontrate ogni giorno anche voi e allora i consigli Aggratisse! sono due:
Aggratisse! n. 1: riconoscere il nemico. Le persone con la tendenza monologa le riconoscete subito, perchè non parlano. Come non parlano? Si, in realtà i tipi così sono abbastanza taciturni, stanno zitti per ore e poi esplodono! Schiaffano in faccia agli altri tutto in una volta quello che normalmente si direbbe in tre giornate lavorative e ritornano al loro silenzio. Guardatevi da colleghi troppo poco socievoli, stanno per scoppiare.
Aggratisse! n. 2: neutralizzarlo. Inutile provare a disarmarlo, è troppo ben fornito. Inutile anche evitarlo, starà zitto per ore, giornate, interi Co.co.pro., ma prima o poi vi arriverà addosso, e allora lì potrebbe essere la fine. Non resta quindi che neutralizzarne l’effetto: preparatevi un caffè, leggete una rivista, scambiate quattro chiacchiere… Ovviamente non con lui, con altri mentre lui si sfoga senza sosta!

Il lavoro mi porta a conoscere ogni giorno persone sempre nuove, alle quali cerco di dare una buona “prima impressione”, la migliore che mi riesca… Di conseguenza sono anche attenta alla prima impressione degli altri su di me, notando dettagli, battute, movimenti. Sarà per questo motivo, per questa esasperata attenzione che penso ancora allibita ad un episodio accaduto qualche giorno fa.
Dovevo contattare urgentemente il responsabile di un ente per il quale sto seguendo un progetto; fino a quel momento non avevo mai parlato direttamente con lui, perché aveva seguito il progetto un suo delegato, ma la questione si era fatta seria e serviva l’autorizzazione al vertice.
Bene, gli telefono pensando che, non avendo lui il mio numero, non mi avrebbe risposto… E infatti non ha risposto. Ho chiamato un paio di volte e lui non rispondeva. A quel punto decido di mandargli un messaggio: so che non è carino mandare un messaggio a chi non si conosce, specie se si tratta di un contatto di lavoro, ma ero alle strette, dovevo avere quella risposta e non ho trovato altra soluzione. Gli invio quindi questo messaggio, presentandomi, scusandomi per il disturbo, illustrandogli brevemente il problema e chiedendogli quando avrei potuto chiamarlo per discuterne.
Letto il messaggio, mi richiama lui e da qui il suo esordio.
Avrebbe potuto fare il severo ed arrabbiarsi con me perché ero stata troppo insistente.
Avrebbe potuto essere improvvisamente subito cordiale, togliendomi dall’imbarazzo del disturbo.
Avrebbe potuto dire di essere già a conoscenza del problema.
Avrebbe potuto rimandare la conversazione a più tardi.
Avrebbe potuto segnarmi un appuntamento per parlarne di persona.
Ma sarebbe bastato anche “buongiorno”, o “chi parla?”, oppure “Giovanni, non ora! Ah non sei Giovanni!?”. Insomma, aveva una vasta scelta!
E lui? Niente di tutto questo!
Il suo esordio è stato decisamente e tristemente molto più originale…
La prima cosa che mi ha detto il mio referente, responsabile, capo, riferimento chiamiamolo come vogliamo, comunque lui che avrebbe dovuto presentarsi a me da grande faro nella notte, la prima cosa è stata: “ma questo suo numero è Vodafone o Tim?“. Memorabile…
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