La mia personale formula di pendolarismo per andare a lavoro è 1 treno + 1 metro + 1 treno, sulla cui validità veglia e vigila attenta la famosa efficienza padana, che dovrebbe garantirne la puntualità.
Solitamente funziona, ultimamente poco e male, poi è arrivato ieri.
Milano, 19 giungo 2012: 39 gradi all’ombra e quell’aria così leggera e fresca da sembrare giallina.
La mia formula del pendolare si è trasformata in:
– Treno n. 1, per ora la linea è interrotta e devo prendere un treno n. 2, che mi porterà in un’altra stazione della stessa metro che mi porterà al treno finale.
– Treno n. 2 annunciato con 16 minuti di ritardo, ora 17, ora 18, ora 19, ora 20, ora 22, arriva dopo 25.
– Treno n. 2 che si ferma due stazioni prima della destinazione. Ora riparte, sta ripartendo, e che non riparte? Ma certo che partiamo, stiamo partendo, attenzione al piedino, porte in chiusura che si parte, salutate con la manina quelli sul binario perchè si parte, treno soppresso.
– Treno n. 3, che mi dovrebbe dare un passaggio fino alla stazione di interscambio con la metro: perso nella transumanza da un binario all’altro.
– Treno n. 4, che anche lui mi potrebbe dare un passaggio fino alla stazione di interscambio con la metro: 7 minuti di ritardo, ma almeno passa, riparte e, soprattutto, arriva.
– Metro n. 1: non c’è un posto a sedere, non funziona l’aria condizionata, è piena di ragazzine urlanti per il nuovo acquisto in saldo, ma va bene così, visto che parte e, soprattutto arriva.
– Treno n. 5 (che se state tenendo il conto, secondo la mia formula doveva essere il n. 2): in ritardo di 8 minuti, però parte. Sapere che quello prima è stato soppresso non mi consola per niente.
Abbiamo treni veloci, treni di lusso, frecce, frecciatine, treni italici e internazionali, perchè in prima classe non si viaggi bene ma meglio, mentre il popolicchio può beatamente tornare a casa da una giornata di lavoro con le sue due orette di ritardo, la famosa Italia a due velocità.
Oggi sostengo il traffico ferroviario regionale, mi comporterò cercando di agevolarlo, senza appesantirne ulteriormente il carico: vado in macchina.
Secondo me sono le conseguenze della primavera, che porta e fa nascere novità.
In Sicilia si tratta soprattutto di nuova e inarrivabile fioritura, ho visto bouganville che voi umani (anche perchè in Sicilia associare la parola “nuovo” a qualcosa di diverso dalla normale evoluzione della natura, soprattutto in certi ambienti, è purtroppo sempre così difficile)…
In Islanda porta nuove leggi, più eque e realmente democratiche, in Lombardia la primavera porta start-up d’impresa, o meglio, porta soggetti che si occupano di avvio di nuove idee imprenditoriali. Davvero, ovunque ti giri è un continuo fiorire di eventi, incontri, seminari, siti web dedicati alle start-up di imprese: ci pensa la regione, ci pensano le province, ci pensano i giovani alternativi, ci pensa l’assessore “figo”, ci pensano i vecchi politici che hanno bisogno di rifarsi l’immagine in vista delle elezioni. Ci pensano architetti, designer, figli di imprenditori, nipoti di imprenditori, padri di imprenditori… Ci pensano Erasmus, Comenius e Leonardus!
Hanno il sito web uno più bello dell’altro, hanno l’evento immancabile, hanno la postazione alternativa, hanno il MAC, soprattutto hanno il MAC!
Oggi a Milano se non startappi non sei nessuno!
Sembra un mondo bello, interessante… A me piace il clima che si respira, di dinamismo nonostante la crisi, di nuova generazione in movimento, tanto che oggi andrò ad uno di questi eventi a cercare di capire in prima persona cosa si fa quando ci si incontra per start-up (sicuramente più produttivo, ma anche meno rilassante che incontrarsi per una birra)… Certo poi mi chiedo se alla fine, dopo tanto incontrarsi, parlare, scambiarsi, startappano davvero! E se startappano, quanto resistono sul mercato? Quanto crescono, quanto espatriano?
Ma soprattutto mi chiedo: visto che tutti questi eventi di solito si fanno all’ora dell’aperitivo, va bene che startappano, ma almeno poi stappano!?
Vi aggiornerò al mio ritorno…
Una giornata così, che parti alle sei del mattino bardata come se la meta fosse il passo dello Stelvio perchè diluvia – già, perchè diluvia il 12 giugno? – e torni alle nove di sera con il sole che non ne vuole sapere di tramontare e ti abbronza più dello spray innovativo capace di trasformare in soli sei minuti pallori nordici in facce color biscotto al cioccolato che una zelante commessa ha tentato invano di farmi provare.
Una giornata così, che vorresti parlare di idee e ti trovi a mollo fra numeri, cifre, conti e conticini che non so dove siano andati, ma sicuramente in un bel posto di mare, visto che non tornano e hanno mandato a dire chiaramente che non intendono farlo.
Una giornata così, che pensi quant’è bello girare per lavoro e ti senti dire che sei la casalinga del gruppo.
Una giornata così, che hai in programma un aperitivo con un’amica solare e divertente e scopri che in realtà è un guru della comunicazione.
Una giornata così, che guidi così a lungo che potevo arrivare a Venezia, ma non avrei riflettuto tanto se non mi fossi messa in macchina.
Una giornata così, piena di facce, montagne, fabbrichette, autogrill, modulistica, pioggia, sole, pizza, sorrisi, excel, mail, convenevoli, autenticità, grinta.
Una giornata così, che finisce stanchissima ma piena, così piena di idee e di cose da fare che non si può non ricominciare!
Difficoltà sul lavoro se ne incontrano ogni giorno: colleghi inadeguati, referenti sempre in ritardo sui tempi, diversi modi di vedere e di pensare, metodologie talvolta opposte per raggiungere lo stesso obiettivo. La situazione in sè non sarebbe neanche tanto grave, è un po’ tutta la vita ad andare così… Con il risultato, nel 97% dei casi, che si arriva la sera così stanchi ed esauriti che certi giorni neanche le repliche del telefilm preferito bastano per scaricare la tensione accumulata.
Ironia a parte, il rischio che si corre è che banali problemi sul lavoro s’ingigantiscano ad ogni metro percorso per tornare a casa, diventando qui bolle pronte ad esplodere addosso ai malcapitati o, peggio, pronte ad implodere dentro un silenzio rabbioso, che a sua volta prima o poi andrà a scaraventarsi da qualche parte.
Il nodo è proprio questo: piaccia o no, il lavoro resta una delle attività principali delle nostre giornate; se non lo è anche in termini di coinvolgimento emotivo, di sicuro lo è per il tempo che gli dedichiamo, in un rapporto tempo lavoro/tempo libero che a fatica sta in equilibrio, soprattutto se sei giovane e precario (rarissimo oggi)…
La professoressa di lettere del ginnasio (18 ore settimanali di ordinaria follia, ma le dobbiamo tanto) al primo giorno di scuola ci disse che nei due anni successivi avremmo passato più tempo con lei che con i nostri genitori (promessa? Minaccia?), che capovolto significava che lei per lavoro passava più tempo con noi che con i suoi figli…
Gli esperti chiamano questo complesso rapporto “work life balance“, io so solo che è difficile da gestire ma fondamentale, per non mandare all’aria le proprie giornate giusto per qualche sfuriata in riunione.
Il problema è ampio e complicato, per cui non posso che consigliarvi – Aggratisse! – di valutare quella che è stata la mia personale soluzione: creatività! Perchè il lavoro non vi corroda, nè vi venga in mente di mollare, createvi altro lavoro, magari sognando e ragionando su quello che da sempre sta in fondo alla vostra scatola dei desideri. Forse riuscirete a costruire pian piano qualcosa di concreto, i sogni prenderanno forme delineate e saprete come muovervi nella realtà. Forse non riuscirete a realizzare molto, ma averci provato e pensato vi avrà almeno un po’ sollevato dalle seccature quotidiane.
Aggratisse! – Consiglio nel consiglio: cominciate a realizzarla davvero, la vostra scatola dei sogni. Prima conteneva scarpe (belle e col tacco), biscotti, un gioco da tavola; ora, con un po’ di carta colorata, nastri e creatività contiene ritagli di giornali e riviste, biglietti da visita, foto, post-it e appunti dei vostri nuovi sogni di lavoro!
Qualche giorno fa ho partecipato ad una riunione all’università, nel dipartimento in cui ho studiato per la laurea e il dottorato. Un legame affettivo fortissimo mi lega alla professoressa e ai colleghi del gruppo di ricerca, tanto che ancora adesso sento di farne parte e continuo a collaborare, per quanto possibile nella distanza fra Milano e Messina, alle loro attività, sulle quali mi aggiornano e coinvolgono costantemente, consapevoli di un senso di appartenenza che il loro stesso atteggiamento aiuta ad alimentare.
Ero a Messina per altre questioni di lavoro e sono passata per partecipare alla consueta riunione del mercoledì e ho trovato, come sempre, un gruppo di persone che parlano e dibattono di Cultura; della Cultura vera, quella senza doppi fini, quella che ogni tanto dimentica le necessarie implicazioni economiche e si libera in approfondimenti pieni di contenuti e di domande, quella che vive della curiosità e del dubbio, senza mai divenire però il vuoto di certe speculazioni fine a sè stesse, distaccate dalla realtà, mere teorie senza risvolti pratici.
Le obiezioni contro gli accademici sono mille, e già aspetto i commenti arrivare uno ad uno a dire che si tratta di persone che guadagnano troppo e lavorano poco, che si occupano di cose inutili, che questi soldi potrebbero essere usati meglio… Obiezioni legittime, ma – permettetemi – superficiali.
Ascoltavo i miei colleghi parlare e confrontarsi su argomenti apparentemente obsoleti e mi sono sentita orgogliosa di essere, e soprattutto di essere stata, una di loro, di quelle persone che mentre la crisi affligge tutti, i teatri chiudono, le sale cinematografiche spariscono, le librerie si trasformano in negozi di abbigliamento per bambini viziati e già nel giro dei consumi inutili, continuano a credere nella Cultura, continuano a tenerla come ragione di vita, di crescita, di libertà.
Una situazione come quella riunione, piena di entusiasmo e consapevolezza, credo sia qualcosa che ha a che vedere con la storiella della luna e del dito, perchè magari a studiare i classici non si impara ad andare sulla luna, ma si trasmette ad ogni uomo l’importanza di inseguire il desiderio di andarci, perchè nessun sogno è mai abbastanza folle da non essere creduto.
Tutte le mie competenze, i miei ricordi, i collegamenti.
Ogni passo, ogni singolo passo e movimento.
Il pc che non si accende, la mail che non arriva, il telefono che squilla.
Idee volanti su fogli appunti e quadernoni di progetti.
Andare avanti e mai indietro, rivedendo però gli errori per correggerli.
Stanze inondate di luce, sorrisi e incitamenti.
Su tutto e soprattutto, entusiasmo dirompente e grandissima amicizia.
Non è lavoro, ma è stato come lavorare.
E allora il consiglio Aggratisse! è: non regalate il vostro lavoro se non ve lo chiede il vostro cuore.
Da bambina non ho mai avuto una grande propensione per lo sport (adesso invece…).
Ero una di quelle ranocchiette appassionate di libri d’avventura e spiaggia sei mesi all’anno.
Non ero granché neanche in quei giochi tipici da scampagnata, come la pallavvelenata, che anzi non mi piaceva proprio, dopo quella volta che, intorno a 6 anni e si e no 35 kg, una compagnetta alta e larga tre volte me (da notare il “compagnetta“) mi tirò una pallonata sullo stomaco di cui ancora ricordo l’impatto.
Oggi con certezza posso dire che non aver imparato il pallavvelenata è stato un grosso errore.
Per chi non lo conoscesse, pallavvelenata è quel gioco in cui quando ricevi la palla non devi tenerla e fare gioco, ma lanciarla subito a qualcun altro. Se avessi imparato a giocare a pallavvelenata, oggi potrei utilizzare sul lavoro quella capacità che utilizzano in tanti, quando arriva la metaforica palla (un problema, una discussione, una dimenticanza) sarei abilissima a passarla ad altri o quanto meno a scansarla.
Devo dire che col tempo sto migliorando, non scanso la palla e non passo la questione ad altri, però sto imparando a riconoscere la pallavvelenata quando si avvicina, quando stanno per passarmela e in qualche modo cerco di prepararmi al colpo…
Probabilmente, ammetto un po’ rassegnata, non sarò mai una brava giocatrice a questo gioco (perché di un gioco si tratta): continuerò ad affrontare discussioni e problemi, a sbattere la testa al muro per cercare le soluzioni, prima di passare la palla ad altri.
Questo non rende, però, la vita facile e non è detto che venga sempre apprezzato.
Per cui, consiglio Aggratisse! del giorno, si avvicina pasquetta: dopo panino e salsiccia più vinello, dopo l’uovo e la colomba, dopo la pasta al forno e la schitarrata sotto l’albero, unitevi al gruppone della pallavvelenata, è il momento di fare allenamento!
Ho passato gli ultimi due mesi in un turbine di 7 bandi con rispettive scadenze consecutive, che si sono aggiunti alle normali scadenze di ogni giorno, tipo sentire tizio entro le 15.00, riunione entro martedì, mail entro mercoledì, problemi ogni di’! Ogni bando con il proprio regolamento, con la propria sfilza di documenti da allegare (anche detta, spesso, “cartazza inutile”), col proprio meccanismo da mettere in piedi… Una follia, sono stati sessanta giorni di follia, a scrivere progetti d’ogni tipo! Sono passata attraverso cooperazione mediterranea sulla cultura a sviluppo rurale, da musicoterapia a schede tecniche, ho parlato con attori e cantanti, con tecnici (diciamo tecnici…) e responsabili, con sponsor e architetti squattrinati più di me… Ognuno con un’esigenza prioritaria rispetto al mondo, ognuno con la genialità nel cassetto, tutto molto social, tutto molto design, tutto molto… Tutto molto bello, ok, come sempre quando faccio mille cose diverse, ma benvenuto a questo bell’aprile senza scadenze!
Cos’è che rende una squadra vincente? Ultimamente mi sono trovata ad osservare il lavoro di team così diversi per ambito lavorativo, storie e personalità, da trovare difficilmente il punto in comune fra loro, anche se mi sembrava, guardando un gruppo, di vederne un altro all’opera in tutt’altra attività ma con le stesse dinamiche.
Mi pare che per rendere vincente un team ci vogliono anzitutto individui capaci, ma individualità non troppo spiccate, ci vogliono coraggio e pazienza, chi guida e chi segue.
Ci vuole chi fa il lavoro che non si vede, i protagonisti assoluti dell’operosità dietro le quinte e chi sappia essere ben rappresentativo. Ci vuole l’umiltà di riconoscere i propri limiti, l’onestà di ammettere che altri sono più bravi, la semplicità di mostrarsi per come si è, la faccia tosta di ammettere di essere i migliori. Ci vuole una scommessa, un obiettivo. Ci vuole il polso di chi guida e il senso critico di chi segue. In ogni caso ci vuole il contorno ed il contesto giusto, che aiutino ciascun elemento a sentirsi al posto giusto ed utile per il gruppo.
E alla fine e prima di tutto, ci vogliono testa e cuore.
Fra le persone che leggeranno questo post, tante potrebbero pensare che è rivolto a ciascuno di loro, che è adatto ad un qualunque difficile passaggio lavorativo di quando si lavora in gruppo. Io, come sempre, scrivo sperando che in tanti vi si possano rispecchiare, ma il post non è per nessuno in particolare.
Anzi, è per mio fratello Checco, che ovunque vada si fa ascoltare ed amare.
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