Per lavoro presente che stenta a decollare e passato che resta presente, ogni giorno pendolo. Pendolo fra il posto in cui vivo e quello in cui lavoro, ma – cosa ben più interessante – pendolo fra la Sicilia e la Lombardia quasi mensilmente. Il quasi include volte che, per dar seguito ai miracoli, ho pendolato con andata e ritorno in giornata, attaccata al minuto alla puntualità del volo di andata e al ritardo sperato per quello di ritorno. I passaggi in aeroporto mi piacciono sempre, vedi gente d’ogni tipo caricata sulla stessa scatoletta volante. In media ogni aereo da un passaggio a: genitori anziani che tornano a casa dopo breve vacanza dal figlio (breve per loro, infinita per il figlio e, soprattutto, per la nuora); sciantosa che anche a quest’ora, come alle sei del mattino, e’ sempre perfettamente sciantosa; grigio uomo d’affari con altrettanto grigio trolley che viaggia con altrettanto grigio uomo d’affari con altrettanto grigio trolley; famiglia con bambino tanto docile e calmo che anche Maria Montessori avrebbe difficoltà; io e quelle come me, ragazze di una certa età, con la testa sufficientemente svagata, l’aria sufficientemente stanca, ma l’occhio sempre ben sveglio sulla marca della borsa o la perfetta manicure della sciantosa di cui sopra. Pendolare per lavoro fra due regioni così diverse, comunque, non rappresenta solo un cambiamento di luogo, ma anche, in qualche modo, un cambio di marcia… Arrivo da una Milano sempre esigente e puntuale, piena di gente che sa sempre Perfettamente cosa fare, una Milano poco indulgente, ma anche tanto viva, a mio avviso eccessivamente precisa e puntigliosa fuori posto, ma anche così comoda per lavorare… Parto da qui e arrivo in Sicilia… So che dovrò fare un carico di pazienza per sorridere davanti ai vari “ora videmu”, “perché ti preoccupi”, “signurina prima prendiamoci un bellu caffè”, “e con questo sole e questo mare lei oggi che viene a chiedere?”… Dovrò fare anche un carico di stupore e ammirazione vedendo anche le tante persone che lavorano e si applicano con impegno, passione e sacrifici anche doppi rispetto a quanto non ci metterebbero lavorando al nord. So che faro’ un carico di gioia, perché non ce n’e come arrampicarsi per l’Etna con il famosissimo pandino giallo per raggiungere il posto della riunione, e scendere con il portabagagli pieno di viveri… So che ripartirò con rabbia e allegria insieme, perché anche stavolta non riuscirò a spiegarmi perché in un luogo così beato, il lavoro debba essere un miraggio e la disorganizzazione e l’impreparazione la regola, interrotte ogni tanto da ammirevoli eccezioni. Allegria e rabbia, perché siamo così bravi ad improvvisare che al nord se la sognano la nostra arte di arrangiarsi, ma sono certa che saremmo ancora più bravi se riuscissimo a lavorare in condizioni normali. Vado, finalmente chiamano il mio volo, in ritardo di un’ora e mezza… La compagnia e’ siciliana… Inizia lo slow mood… Ho detto tutto!
Sarà capitato anche a voi (canticchiando “Zum zum zum“), anche se non si tratta di avere una musica in testa, ma una gran fretta.

Sarà capitato anche a voi, una giornata di lavoro in cui insegui l’inseguibile, speri di arrivare a fare tutto e intanto cerchi qualcosa contro il mal di testa, segni la lista della spesa sui post-it che appena attaccati automaticamente si staccano, fai due chiamate e ti illumini di immenso quando vedi le lancette segnare la tua ora, il tuo momento. 
Sarà capitato anche a voi, di pensare “giusto un’ultima occhiata alla posta e chiudo”… NO!
Il consiglio Aggratisse non del giorno, ma di una vita è NO! Non fatelo! Nessuna ultima occhiata, nessun giusto-per-sapere-poi-provvedo-domani, NO! Potrebbe succedervi l’impensabile, come è successo a me.
L’ultima occhiata è caduta su un fax online, attirando la mia attenzione, visto che fax non ne arrivano quasi mai. Il problema è che il fax era dalla procura della repubblica di una città indirizzato al comando di polizia di un’altra città che mandava un invito a comparire per un cittadino lì residente ma di altra nazionalità. Chiedo consiglio e mi dicono di telefonare ai carabinieri della città di destinazione, che si fanno mandare il fax e mi richiamano, loro non possono far nulla, devo richiamare in procura. Richiamo in procura al numero dato sul fax e chi mi risponde – giuro! – dice che deve verificare con sè stesso se è stato lui a mandare quel fax! Ha detto proprio così! Insomma, passa un quarto d’ora di verifica con sè stesso e mi richiama, mentre io mi stavo interrogando sulla tipologia di disagio di personalità che avrà quello dall’altro lato del telefono, che ci mette tanto per verificare con sè stesso…
Ad ogni modo, il fax l’aveva mandato lui, che non può però semplicemente correggere il numero del destinatario (magari su questo non è d’accordo con sè stesso, chissà) ed inviarlo a quello corretto, eh no, troppo facile… Devo farlo io! Mi chiede quindi di inoltrare il fax al numero esatto di destinazione…
Il mio senso civico prevale ed ubbidisco… NO! Voi non lasciatelo prevalere!
Il mio fax è online, quello del comando di polizia no e non potevano leggere la mail, per cui ho dovuto prima telefonare, verificare il numero, stampare il fax e inviarlo, contemporaneamente salutando con la manina l’intenzione di uscire dall’ufficio ad un orario decente.
Riassumendo, consiglio Aggratisse: ci sono momenti, che solitamente si concentrano fra le 18.00 e le 18.30, in cui, credetemi, il vostro senso civico può proprio aspettare!
Il 31 gennaio sono stata chiamata per un incarico passato da abbastanza-impegnativo a bello-tosto quando mi hanno detto che la scadenza era il 15 di febbraio. Il committente mi disse, con quel mezzo sorriso di chi ti sta calando un pacco, “si tratta solo di un mezzo miracolo, Angela”.
Giovedì mi manda una mail, c’è ancora qualcosa da fare e correggere su quel lavoro; beh, ha mandato una mail, se fosse stato urgente avrebbe telefonato, per cui penso che non sarà urgente… Rileggo la mail e la scadenza è le 7.00 dell’indomani mattina! Lo chiamo perplessa, altro mezzo sorriso, altra naturalezza nella voce: “Angela, ultimo piccolo miracolo“…
Ieri sera altra mail con ulteriori aggiunte in scadenza oggi! Il commento, neanche a dirlo, “almeno stavolta hai più tempo a disposizione per il miracolo“.

Qua i dati da segnalare sono due:
1. Avrete notato che il pacco andava crescendo di giorno in giorno.
2. Con “Tu che non credi ai miracoli, ma li sai fare” il buon De Gregori intendeva tutt’altro.

Le osservazioni da fare, di conseguenza, sono due:
1. Sarà pure gratificante la stima dimostrata, ma un lavoro normale e i giusti tempi no, eh!?
2. Non credo ai miracoli e non ne voglio fare!

Per i lavoratori precari, la compilazione del cv è un’operazione sempre più complessa.
La vita del precario è una somma di lavori, anche diversissimi fra loro, che si susseguono – nella migliore delle ipotesi senza sosta – e diventano causa di gravi crisi di identità quando si tenta di metterli su carta in fila uno dietro l’altro. A volte, a vederli dettagliati nero su bianco, si evidenziano le differenze abissali fra un incarico e l’altro e si teme di dare l’impressione di aver improvvisato per tutta la vita, prendendo quello che passava il convento senza un percorso, senza un progetto.
Crisi che si acuisce se si comincia a dare ascolto a sedicenti consiglieri e consulenti: fai un cv creativo, metti tutto, non mettere niente, specifica, metti in nota… Crisi di proporzione abissale se ci si confronta con le richieste della pubblica amministrazione, una asettica cronologia di date e luoghi.
Crisi che non ti lascia, quando vorresti che l’inchiostro da solo spiegasse come mai hai svolto quell’incarico assurdo, o come mai hai lasciato il lavoro più sicuro del mondo; in quei momenti in cui vorresti spiegare che quella collaborazione così strana, iniziata quasi per caso, ti ha poi portato amicizia, viaggi, lunghe ore di chiacchierate, scontri, dubbi, incontri e tutte quelle sensazioni ed esperienze così umane e indimenticabili che solo narrarle le svuota di significato. Quei momenti in cui vorresti spiegare che ci sono lavori che hai lasciato e che non rifaresti più, ma nati in occasioni delle quali rimpiangi il contesto.
Quei momenti in cui ti chiedono “ci dica qualcosa su questo incarico” e tu sai che non potrai mai narrare di ciò che ha contato veramente, quando ti chiedono “l’esperienza maturata durante questo periodo?” e tu non riuscirai a parlare se no di banalità, se non di cose di cui non ti interessa proprio nulla.
Quei momenti in cui guardi quella pietra incastonata in una fila di perle, e tutto è cambiato e qualcuno se n’è andato, e vorresti solo che tornasse perché c’è ancora tanto da dire e da fare.
E II evento fu, nonostante diatribe, ostruzionismi, avversità per terra e per mare…
Devo dire che stavolta sono riuscita ad essere più seria, anche se qualche chicca scelta e selezionata c’è… E non solo mia, sta a voi scoprire qual è farina del mio sacco!
1. Lesson n. 1: i maltesi parlano bene inglese, forse qualcuno non benissimo, ma molti si. Forse i genitori fanno bene a mandare qui i figli a studiare, forse no. In ogni caso non è necessario dirlo davanti ad un maltese.
2. A tutta birra. Dicono che a Malta sia tipica la birra al limone, buonissima bevanda fresca, dissetante, leggera. Basta saperla ordinare, perchè se ordini una birra con tanto limone, ti ritrovi con tre quarti di Sprite e un quarto di birra, e non va decisamente bene!
3. Perle di saggezza: don’t buy souvenir, buy superbeer!

Beh, bella Malta, strana… Bello più di tutto che “Dio” lo chiamano Alla (accento sulla prima a). Qui gli scambi di elementi fra le diverse religioni dimostrano quant’è bello integrare e quanto è facile…
A Malta, w ENVOY!

Tu

Come potrebbero passare ore e ore attaccati al pc per portare a termine un lavoro senza il giusto aiuto?
Come si potrebbe tener testa alla stanchezza e al sonno?
Come ricordarsi di dover mangiare, bene, riposare senza qualcuno che te lo ricorda?
Come distrarsi un po’, senza qualcuno che ti faccia ridere e divertire?
Tu, il lato umano del troppo lavoro.
Guardando dalla finestra il freddo bello dell’inverno: cielo latteo, il giardino candido, rami curvi come archi bianchi, il silenzio delle macchine lontane, il loro passaggio attutito dalla neve.
Dentro, a distanza di due anni e più, sono felicissima di ricominciare a lavorare su sviluppo sostenibile e gestione integrata delle risorse, progettare percorsi turistici e culturali che salgono fino al vulcano e scendono dalle Forre, entrano nei teatri e scarpinano in mountain bike, vanno a cavallo e sanno di archeologia.
Preparo bandi e progetti qui in questa città che sa di casa, ma respiro un’altra aria, che mi riporta a casa.

Spieghi, non capisce.
Spieghi, non capisce.
Spieghi, non capisce.
Aggiungi esempi, citi parallelismi, tenti astrazioni, non capisce.
Alzi la voce, ti animi, non capisce.
Tenti la strada del sorriso, non capisce.
Riscrivi il testo, non capisce.
Puoi tranquillamente passare al gatto a nove code, le attenuanti sono tutte dalla tua parte.

Un consiglio per voi, un grazie a chi mi ha dato questo consiglio, un gatto a nove code a chi l’ha ispirato!

Ah l’avvocato! Chi di noi non ha amici avvocati cui pensare in questo momento!? 
Siamo attorniati, per ogni cinese al mondo si trovano 7 avvocati, una proporzione che si fa beffa della teoria dei sosia che ciascuno ha sparsi in giro chissà dove (più degli avvocati sono solo gli studenti di giurisprudenza…)!
Ah l’avvocato, come non dedicare un tarocco a tale stuolo di professionisti, loro, si sa, razionali e cavillosi non credono ai tarocchi, ma un’occhiata a questo la daranno sicuramente, per poi trovare emendamenti persi nella memoria del codice civile.
L’avvocato, una di quelle professioni in cui nettamente si distinguono i generi: la donna avvocato – che non ho mai capito se ci tiene che si dica avvocatessa per rivendicare il suo genere – è sempre perfetta, magra, elegante, curatissima, forte. 
La donna avvocato è una superdonna per eccellenza, la guardi e dici “ma come fa?”, volteggia sui tacchi mentre con equilibrismi che manco il contorsionista di Moira Orfei porta in studio sette faldoni zeppi di carte per la nuova causa, sempre trascinandosi dietro la porta documenti (e che porta documenti!) passa dal consolare con tono solidale clienti disperati, a dettar legge (sic!) su comportamenti in aula per i più irrequieti.
L’amica avvocato ha sempre una risposta a norma di legge pure per i problemi più improbabili, quanto meno sai che ti darà assistenza legale quando tornerai in negozio per cambiare taglia temendo che non basti presentare lo scontrino.
L’uomo avvocato, invece, non volteggia ma filosofeggia! Per lui il diritto è uno stile di vita, il suo motto è “siccome-lo-dice-la-legge-allora-si-può”, fingendo di ignorare che c’è un mondo che si chiama “Emozioni” che la legge non può regolamentare… Poi lo vai a stanare, però, il cuore dell’amico avvocato, quando cerca consiglio per comprare il regalo alla fidanzata…
In ogni caso, che sia donna o uomo, loro “lo” sanno… Cosa…? Chiederete voi. Tutto! 
Loro già sanno tutto, conoscono i codici a memoria, quindi possono dire di sapere tutto, con la stesso meccanismo di presunta superiorità dei pianisti sugli altri strumentisti!
Sulla figura del povero (povero…? Se è povero non è avvocato, è praticante) avvocato è stato detto tanto, sempre sul filo fra l’essere un paladino di giustizia o in qualche modo un complice dei suoi clienti (ma questo non è l’avvocato, precisiamo, questo è il delinquente). 
Per chiudere ricordiamo che all’avvocato va sempre detta la verità, un assioma che nutre la sua sicurezza di sapere tutto… D’altra parte, se credete che i confessori religiosi ne abbiano da raccontare più di voi, allora la verità non resta che dirla a lui!
Il numero della carta dell’avvocato è 1509. Non potrete giocarlo al lotto (a meno di scomposizioni), ma tanti giorni dura mediamente un processo civile in Italia!
Il disegno, perfetto come sempre, con l’indice impertinente di chi conosce le cose, è del bravissimo Andrea Luceri, www.lucuferocomics.blogspot.com.
Forse è troppo facile parlare dall’alto di garanzie per pochi, per questo, quindi, forse avrebbe fatto meglio ad usare altre espressioni, però, chissà, forse davvero ha ragione lui.
Andando oltre le parole utilizzate, che non dovevano essere quelle, l’idea di base la condivido da sempre: evitare accuratamente il lavoro che dura una vita per cercare ogni giorno di fare quello che più mi piace!
E così non mi sono iscritta alla scuola di specializzazione per l’insegnamento, pur sapendo che nel giro di poco tempo magari sarei passata di ruolo e avrei avuto accesso al posto fisso. Ho evitato accuratamente di causare traumi a generazioni di alunni incolpevoli e di incatenarmi a vita ad un ruolo che prima o poi (prima, molto prima…) mi avrebbe stancata, annoiata.
Effettivamente sapere oggi che fra trent’anni farò ancora la stessa cosa, un po’ mi angoscia.

Adesso vivo sulle montagne russe, come un po’ tutti i precari credo, fra i picchi di entusiasmo e adrenalina degli incarichi nuovi, dei progetti che iniziano, dei lavori che si avviano, e le cadute brusche dei “no” messi in fila come perle, dei ritardi nei pagamenti, dei dubbi del domani.
Certo ci sono estremi di finte collaborazioni che obbligano la partita IVA, di contratti firmati in bianco con clausole ignote e altre terribili pratiche che non possono essere tollerate, ma in qualche modo è chiaro a tutti che il nostro sistema non è più sostenibile e che quindi qualcosa la dobbiamo cambiare. 

Potremmo andare anzitutto verso una flessibilità interna ad un posto di lavoro comunque garantito, perchè non è detto che, pur mantenendosi all’interno di una certa organizzazione o di una certa azienda, di uno stesso ente, non si possa ad un certo punto cambiare ruolo o funzione quando lo si voglia. Certo lo stato è un gran macchinone e non può stare alla mercè di chi all’improvviso decide di essere stufo di un compito e vuole cambiarlo, ma si potrebbe cominciare a pensare ad una scansione temporale entro cui al lavoratore viene chiesto di decidere che strada prendere, magari con step pluriennali.
La pianificazione faticosa, la strada è lunga, ma non è detto che non si trovi un soluzione.
Dicono che il nostro nuovo modello di organizzazione del lavoro è la Danimarca e io ci spero tanto!
I danesi mediamente, nella loro vita professionale, cambiano 7-8 lavori, girano da un’azienda all’altra, da un progetto all’altro sapendo che, investendo su se stessi, il prossimo lavoro è sempre dietro l’angolo.
L’importante è che del modello danese ci arrivi tutto, ma proprio tutto: le possibilità e la vastità di offerte che rendano il precariato attuale una flessibilità interessante, l’assistenza sociale che copre ogni momento della vita e non la latitanza del welfare italiano, la parità di accesso al mondo del lavoro per tutti, l’ottimismo, l’intraprendenza e tanto altro.
Personalmente poi non mi piace avere paura dei cambiamenti, che magari portano con sè l’opportunità che cerchiamo da una vita!
Forza ragazzi, ottimismo! A quanto pare, non c’è del marcio in Danimarca e se portano in Italia il modello danese… A noi ragazze va in ogni caso bene!

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